«Minacciata, impaurita e angosciata dall’idea che questo pianeta non avesse un futuro». Così si descriveva Hannah Ritchie, ricercatrice presso l’Università di Oxford, capo del Dipartimento di ricerca del progetto Our World in Data ed autrice del saggio “Non è la fine del mondo” edito da Aboca, prima di capire come stavano veramente le cose, che le nostre convinzioni in fatto di ambiente, inquinamento e possibili soluzioni, sono in aperta controtendenza con le previsioni più aggiornate fatte dalla comunità scientifica. L’autrice nata nel 1993 vuole indirizzarsi principalmente alle giovani generazioni, sensibili alle tematiche ambientali ma spesso preda di una visione apocalittica o fatalistica della questione, proponendo un approccio che si può dire “ecologismo pragmatico”, che riconosce la complessità dei problemi ma anche le tendenze positive ed i successi raggiunti. La vera catastrofe da cui l’autrice mette in guardia è la perdita di speranza nel cambiare le cose, perché questa produce un effetto paralizzante. Di fatti l’intero libro è un continuo inno alla speranza e alla capacità dell’uomo di affrontare le sfide ambientali, smontando miti apocalittici sulla fine del pianeta ed approcci catastrofistici.
Partendo dalla materia che padroneggia di più, ovvero l’analisi dei dati, l’autrice si propone di spogliarci di pregiudizi e luoghi comuni, specie i più negativi, sul’’ambiente e il futuro dell’umanità, fornendoci una nuova e diversa prospettiva sulle 7 più importanti crisi ambientali che il pianeta sta attraversando, abbinando all’analisi anche soluzioni propositive per migliorare le tendenze: inquinamento atmosferico, cambiamento climatico, deforestazione, cibo, perdita di biodiversità, plastica negli oceani e pesca eccessiva.
Il libro si apre con un’approfondita riflessione sul concetto di sostenibilità, la cui definizione più comune è «Avere un basso impatto ambientale per proteggere le future generazioni»: secondo questa definizione è vero che i nostri antenati erano più sostenibili e con un basso impatto ambientale. Ciò era possibile per via della scarsità di popolazione, e la ragione di tale scarsità era che la metà dei bambini moriva prima della pubertà. Tuttavia, interrogandosi più a fondo su cosa è davvero la sostenibilità, diventa necessario ampliare lo sguardo ed aggiungere un’altra prospettiva alla sua definizione, per cui la sostenibilità è innanzitutto «Dare una vita dignitosa a tutti oggi», due metà necessarie per raggiungere veramente la sostenibilità. Se una parte fallisce non si può essere sostenibili, per questo i nostri antenati non sono mai stati sostenibili, non soddisfando la prima parte dell’equazione.
Negli ultimi secoli il mondo ha fatto incredibili progressi sulla prima metà, progressi che hanno avuto un costo in termini ambientali, dei progressi possibili solo bruciando combustibili fossili, estendendo le terre agricole a discapito delle foreste, utilizzando il 50% delle terre emerse non ghiacciate per coltivare. Tuttavia, ciò ha permesso cambiamenti incredibili: nel 1800 circa il 43% della popolazione infantile mondiale moriva prima dei cinque anni, ad oggi questo dato è sceso al 4%, la povertà estrema era la norma, ora riguarda 1 persona su 10, la gestazione è divenuta dieci volte più sicura ed in alcuni paesi addirittura cento volte, l’aspettativa di vita media in Europa oggi è di 80 anni mentre fino al XIX secolo era di 30-40 anni. Pensare che ciò sia accaduto solo nei paesi ricchi è un errore, ogni singola nazione ha fatto progressi enormi negli ultimi cinquant’anni. Il mondo oggi è ancora un posto difficile e diseguale, ma quasi tutti i parametri del benessere umano dicono che il mondo è diventato un posto migliore.
Un altro grande mito che viene affrontato è l’incompatibilità della crescita economica con la riduzione dell’impatto ambientale. L’autrice illustra come negli ultimi decenni le emissioni dei paesi ricchi si sono fortemente ridotte, l’impatto ambientale di una persona oggi è meno della meta di due generazioni fa, nonostante lo stile di vita sia molto più generoso e complesso.
E questo considerando anche le emissioni prodotte dalla delocalizzazione industriale, attraverso il calcolo delle emissioni dei beni importati, dette “emissioni in base ai consumi reali”.
Nel Regno Unito il PIL pro capite, al netto dell’inflazione, è aumentato del 50% dal 1990 mentre le emissioni a livello nazionale ora sono ridotte di metà (di un terzo calcolando in base ai consumi reali), una tendenza uguale alla maggior parte dei paesi sviluppati. In Germania, entrambi i tipi di emissioni sono diminuite di un terzo ed il PIL pro-capite è aumentato del 50%. In Francia, le emissioni si sono ridotte di un quarto ed il PIL pro-capite è cresciuto di un terzo. «La crescita economica e la riduzione delle emissioni sono spesso considerate incompatibili, tuttavia i vari paesi stanno dimostrando che in realtà è il contrario, […] ridurre le emissioni è davvero possibile e non significa necessariamente un crollo economico».
Un fattore trainante di questo processo è stato il cambiamento tecnologico che ha permesso l’accesso a fonti energetiche a basse emissioni ad un costo competitivo rispetto ai combustibili fossili. Si stima che il solo costo dei pannelli solari dagli anni ‘70 sia diminuito del 99,8%, di cui il 90% solo nell’ultimo decennio, con una tendenza che prosegue la sua discesa.
L’autrice prosegue illustrando evidenze sempre supportate da dati, ma che stupiscono, come sulla deforestazione: «I paesi temperati stanno ora facendo ricrescere le foreste. Il mondo ha superato il picco della deforestazione decenni fa». Sul cibo, per cui grazie agli aumenti della produttività agricola e alle innovazioni biotecnologiche, potremmo nutrire 10 miliardi di persone con una frazione della terra utilizzata oggi. O sulle plastiche oceaniche: «Circa lo 0,5 per cento dei nostri rifiuti di plastica finisce nell’oceano. Ma questo è un problema risolvibile: con gli investimenti nella gestione dei rifiuti, questi possono essere ridotti quasi a zero».
Tutte le crisi elencate sono interconnesse in un sistema, se quindi non esiste un’unica soluzione, ogni soluzione utile può servire a risolvere più di uno tra essi. Cambiando il modo in cui si produce energia si avrà un beneficio sul clima e sul modo in cui ci procuriamo cibo, riducendo a cascata l’impatto sulla biodiversità. Il pensiero pratico dell’autrice si riassume così nella sua frase: «Non c’è il proiettile d’argento ma ci sono tanti strumenti concreti per agire».
Nello snodarsi dell’analisi e nell’affrontare le varie problematiche, si fa gradualmente strada un cambio di prospettiva radicale della nostra visione futura, anche se dichiarato solo nelle ultime pagine: e se invece di rappresentare l’ultima generazione umana sul pianeta, fossimo la prima capace di costruire un mondo finalmente sostenibile?